Antonella Tarpino

Da “Il paesaggio fragile. L’Italia vista dai margini” di Antonella Tarpino, Passaggi Einaudi, Cles (TN) 2016:

Ripenso alle parole di un grande medievista (Aron Gurevič), quando parlando dell’antica intelligenza del mondo osservava quanto il confine fra l’uomo e il mondo circostante fosse fluido e indefinito. E lo spazio fosse proiezione dell’umano oltre il perimetro di se stesso […]. Parte organica del mondo, l’uomo era difficilmente in grado di osservare dall’esterno lo spazio fisico tutto intorno. Come del resto mostrano le immagini del microcosmo, replica ridotta dell’universo in cui organismo umano e mondo naturale si compenetrano: e dove l’uomo figura spesso come un albero capovolto (“arbor inversa”) che cresce dal cielo in terra. Tanto che proprio di questa relazione indifferenziata degli uomini con la terra è espressione la figura del corpo grottesco rappresentata nelle forme iperboliche dell’arte figurativa e della letteratura medievali: uomini-bestie, alberi con teste umane, monti antropomorfi che raggiungono il loro apogeo, come sappiamo, nelle raffigurazioni fantastiche di Bosch e Brueghel.

Metro del suo paesaggio, l’uomo nelle società premoderne si confrontava con il mondo e lo misurava trovando la misura in se stesso: il braccio, il palmo, il pollice. Solo in rare occasioni […] mi è capitato di percepire segni anche se fuggevoli di quanto questa cesura sensoriale sia stata radicale e irreversibile al di là di inutili nostalgie o di presunte superiorità. Che cosa abbiamo perduto? (O guadagnato, mi interessa il salto in sé…) si era chiesto Paul Zumthor, il critico e filologo, negli anni Novanta. Abbiamo smarrito – si era risposto – proprio la capacità di vivere lo spazio come <<estensione>> della nostra coscienza corporea: è il corpo, infatti, il nostro luogo originario, microcosmo spazio-temporale eletto a modello del mondo e capace insieme di rifletterlo. E anche di misurarlo (anche attraverso il cubito e il passo). È attorno e in relazione al corpo che l’estensione si organizza opponendo Dentro e Fuori, Pieno e Vuoto, Qui e Altrove…

Ma il corpo proietta nello spazio anche l’anima e con essa le misure morali del suo mondo – ricordo ancora da Zumthor – come l’alto e il basso. È proprio a questa calorosa complicità con la Terra (in cui lo spazio è per così dire <<provato>> nel corpo) che abbiamo da tempo rinunciato. Fino a stentare quasi di poter immaginare […] un mondo in cui lo spazio non è concepito come un mezzo neutro ma <<come una forza che regola la vita, l’abbraccia, la determina…>>

Ecco che per questa via il paesaggio diviene un corpo vivente con il quale quello dell’uomo è capace di esprimere amicizia: è oggetto di conoscenza e questa in cambio partecipa alla sua definizione. E della dimensione umana riflette tutta la precarietà, la fragilità intrinseca […].

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